Notte – Edgar Hilsenrath

Notte, di Edgar Hilsenrath (Voland)

Edgar Hilsenrath (Lipsia, 2 aprile 1926 – Wittlich, 30 dicembre 2018) è stato uno scrittore ebreo tedesco, d’origine orientale. Si rifugiò in Romania per sottrarsi alla minaccia nazista, ma fu deportato con la famiglia nel ghetto di Mogilev-Podolski, oggi in Ucraina, nel 1941 in Romania, sotto l’occupazione. Hilsenrath vi rimase fino all’intervento dei russi, nel 1944.

Superstite malridotto, per poco non viene deportato in Siberia, aderisce al movimento sionista e parte per la Palestina. Inquieto, riparte per la Francia; nel 1951 si imbarca per gli Stati Uniti. Dopo trentasette anni di odissea, si rimette in viaggio e va in Germania; si stabilisce a Berlino, dove vive fino alla morte a quasi 93 anni.

La traumatica esperienza dell’olocausto lo ha segnato in maniera indelebile. Il segno di quegli anni è marcato a vita sulla carne viva e continua a sanguinare. Per vivere, per continuare a vivere dopo il ghetto cosa siamo costretti a fare?

Hilsenrath non si suicida, come altri superstiti dai campi hanno fatto, ma è tormentato. Sente che deve scrivere, deve raccontare quello che il nazionalsocialismo ha fatto. L’uomo, o quel che ne è rimasto del suo essere uomo deve rendere giustizia a tutti i resti degli altri sommersi in un mare di morte e di schifo. Sente di dover prima di tutto rendere testimonianza di una realtà così degradante, degradata e priva di dignità umana alla quale furono sottoposte migliaia di persone. La scrittura, anche se di riscatto non si può parlare, diventa l’unica via per non soccombere, per riuscire a riemergere una seconda volta.

Comincia a scrivere sull’olocausto dopo la sua liberazione, quando si trasferisce a Parigi.
E continua per dodici anni, con tanta fatica perché non aveva nessun tipo di rudimenti dello scrittore. Quando finalmente riesce a mettere insieme le 540 pagine del romanzo, scartando più del doppio, il problema è un altro: pubblicarlo.

Nessuno vuole assumersi questa responsabilità. Questo libro costringe tutti a fare i conti con un nuovo tipo di ebreo, che si oppone all’ebreo positivo, come sottolinea Paola Del Zoppo nella postfazione. Nel dopoguerra, la Germania ha cercato in tutti i modi di avviare un processo di cancellazione della colpa, non di accettazione.

Questo libro ritira fuori argomenti di cui si preferisce non parlare. La Germania non è pronta, non è capace di riaprire una pagina di storia così recente e chiusa male.

“Notte” è la storia della quotidianità del ghetto, incentrata sul personaggio di Ranek, che combatte per sopravvivere. Giorno dopo giorno, perso in un’atmosfera apocalittica, antieroe feroce e cinico, disposto a tutto pur di restare aggrappato alla vita, sempre in lotta per il cibo o un posto letto.

Gli altri personaggi del romanzo, sono ombre costrette a muoversi nella nebbia, spesso senza più nessuna connotazione umana. Si pensa a Céline, al suo “Viaggio al termine della notte”, ma anche ad altri autori come Miller, Steinbeck, Burroughs e Gor’kij. “Notte” è considerato un capolavoro, leggerlo è finalmente possibile anche in italiano grazie alla fedele traduzione di Roberta Gado, traduttrice letteraria, moderatrice bilingue e mediatrice culturale.

È un affresco crudele e grottesco. Controverso per la sua durezza, dallo stile scarno e disincantato anti-estetizzante, un esempio di realismo antiletterario. La narrazione è difficile, fa i conti con la tragicità della condizione umana, attinge e si concentra sugli aspetti triviali, è un gioco di ‘scarti’ per dirla con la Del Zoppo.

Sono storie non raccontate, momenti secondari, dolori declassificati, cattiveria delle persone. Solo alcune donne e solo in certi momenti non sono cattive. Debora, la cognata di Ranek sfugge a questa classificazione. Lei rimane umana. Lei è il diverso nel ghetto. L’unica che non soccombe alla legge della sopravvivenza, che non abbandona il marito, malato di tifo, lo cura e lo nutre fino alla morte. Così si prenderà cura anche di un bambino e sarà giudicata pazza per queste sue azioni.

Le pagine dedicate al rapporto e all’amore che unisce Debora e Ranek sono pura poesia. Altrimenti “Notte” esprime impossibilità e improprietà di giudizio, è il trionfo della morte, fa pensare a un quadro di Bruegel, Bosch o Picasso.

«Hillsenrath si riappropria di un’idea premoderna del grottesco, in cui il senso morale lascia il passo a una strategia estetica focalizzata sullo straniamento e sulla spersonalizzazione».

I cadaveri contribuiscono a rendere questa assenza di sé, a confondere i morti con i vivi. Ranek è allo stesso tempo vittima e carnefice, la sua impotenza, derisa dalle donne e dagli altri personaggi è l’ossimoro di una sofferenza ben più profonda. È un espediente per riflettere su ciò che accade nel bene o nel male, esprime la lacerazione del personaggio visibile anche all’esterno.

Alla fine morirà, nello stesso luogo dove è morto suo fratello. Le ultime pagine vedono Debora ancora in vita, con un neonato fra le braccia. Uno spiraglio di luce forse nella vita futura della donna e del bambino.

I consigli de Caffè Letterario Le Murate Firenzedi Sylvia Zanotto

Recensione originale a questo link

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